Olocausto del Lago Maggiore – Intra

L’Olocausto del Lago Maggiore è un episodio poco conosciuto della storia della Shoah in Italia, che coinvolge nove comuni di due province, Novara e Verbano Cusio Ossola: Arona, Baveno, Bée, Meina, Mergozzo, Novara, Orta, Stresa, Verbania. E’ il primo eccidio di civili ebrei in Italia ed è numericamente inferiore, per vittime di religione ebraica, solo a quello delle Fosse Ardeatine: ad oggi sono 57 le vittime accertate, un numero che gli storici ritengono destinato a salire.

Consumatosi immediatamente dopo l’annuncio dell’armistizio, le sue dinamiche non sono ancora del tutto chiare e la sua memoria, che per anni è stata trasmessa in modo frammentario, ha iniziato solo di recente a essere trasmessa in modo unitario, anche grazie a una serie di iniziative promosse a partire dal 2013 in occasione del Settantesimo Anniversario, celebrato congiuntamente da tutte le località coinvolte. Contestualmente, è continuata la ricerca per la ricostruzione dell’esatta dinamica dei diversi episodi, per la ricostruzione delle biografie delle vittime già accertate e per appurarne l’esatto numero.

L’episodio di Intra

L’eccidio di Intra è riportato anche da Enrico Massara nell’Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese. La ricostruzione che proponiamo parte dal testo su cui si è basato lo stesso Massara,  Ebrei sotto Salò di Mayda e su pubblicazioni più recenti, ma lascia aperte possibilità di ulteriori approfondimenti.

Da tutte le fonti analizzate, sappiamo che nel settembre 1943 la famiglia di Ettore Ovazza, ebreo ex combattente della Prima Guerra Mondiale che aveva aderito al fascismo, vende proprietà immobiliari per acquistare gioielli, si procura denaro liquido e si trasferisce a Gressoney- St. Jean, Aosta, presso l’albergo Lyskamm. Con precisione, Mayda riporta che

dopo l’8 settembre 1943 la famiglia Ovazza […] lascia Torino e si trasferisce nella Valle d’Aosta, a Gressoney, portando con sé una fortissima somma di denaro contante e una grossa quantità di gioielli: il banchiere, infatti, ha venduto la sua casa di corso Vittorio Emanuele 61 e una palazzina e ha acquistato preziosi per quattro milioni dai gioiellieri Fasano e Montano, di Torino.

L’adesione di Ettore Ovazza al fascismo e la situazione in cui si trovavano gli ebrei italiani dopo la fine dell’alleanza con i tedechi sono descritte da Mayda con queste parole:

Purtroppo la grande massa ebraica italiana – staccata per un verso dall’esigua minoranza degli ebrei antifascisti e per un altro dalla élite degli ebrei che faceva capo ai massimi organi delle comunità o ai movimeti filofascisti come quello del “La nostra bandiera” del barone torinese Ovazza – non aveva mai avuto possibilità di esprimere opinioni, dibattere problemi, rendersi insomma conto del mutare della situazione e del baratro che, giorno dopo giorno, si apriva dinanzia a lei. ( pag. 59 del testo in bibligrafia)

La famiglia è composta da Ettore, 51 anni, banchiere, già direttore della citata rivista ebraica, fascista e antisionista “La nostra bandiera”, Nella Sacerdoti, 41 anni, Riccardo, 20 anni, Elena, 15 anni, tutti nati a Torino. La presa di coscienza del cambiamento di situazione che si prospetta per gli ebrei con l’arrivo dell’ex alleato fa comprendere che la vicinanza al fascismo non sarà di aiuto: le sempre più stringenti restrizioni imposte agli ebrei non fanno sconti di alcun genere e gli Ovazza decidono quindi di adottare un “basso profilo” e spostarsi da Torino. Decisione che per Ettore non deve essere stata facile, scontata. Da un libro di raccolta di testimonianze voluto dalla stessa famiglia e pubblicato nel 20o9, si apprende che i tre “capifamglia” di allora, i fratelli Alfredo, Vittorio e Ettore si incontrarono in piazza Carlina alla fine del ´39  per  scegliere come proteggersi dalle leggi razziali:

«Ettore (che aveva aderito al fascismo, ndr) era contrarissimo alla fuga, Vittorio era incerto, Alfredo decisissimo e pronto per il Sud America». La fine è nota. Solo nel settembre del ´43 Ettore con la moglie Nella e i figli Elena e Riccardo tenta la fuga verso la Svizzera, ma viene intercettato e trucidato dalle Ss con tutta la sua famiglia: è l´eccidio di Intra

Un diverso atteggiamento, quello messo in campo dai tre fratelli, che possiamo accostare, per diversità di opinioni e strategie di salvezza, oltre che per esiti,  a quello della famiglia di Primo Levi, (rimandiamo per questo tipo di riflessioni all’articolo in bibliografia sulla ricostruzione dell’episodio di Orta, nel quale sono coinvolti uno zio e un cugino dello scrittore torinese).

Mayda dedica diverse dense pagine pagine del suo testo agli utlimi giorni di vita di Ettore Ovazza e della sua famiglia, in particolare le pagine da 90 a 94, rivelandoci molto di queste quattro persone. In prima battuta, conferma la ricchezza del banchiere torinese:

prima della guerra il suo patrionio venia valutato in quaranta milioni

poi riporta che

il suo nome, oltre che per censo, era noto anche come quello di giornalista politico

ricostruendo la fondazione del giornale “La nostra bandiera”, risalente al 1934 e affermando che

alla vigilia delle leggi razziali e nel pieno delle travagliate vicende dell’ebraismo italiano[…] abbandonava clamorosamente la vita pubblica e la direzione del giornale

Cosa accade dopo la decisione di abbandonare Torino? Qui le versioni sono contrastanti. Tutti concordano sul trasferimento a Gressoney, ma sul passaggio in Svizzera e sulla sua dinamica esiste una molteplicità di versioni.  Secondo Mayda, mentre gli amici insistono perché gli Ovazza lascino l’Italia, il banchiere non si sente in pericolo lontano dalla città:

“Che cosa può succedermi? Sono un buon italiano, i vostri timori sono esagerati”. Alla fine si lascia convincere a mandare almeno il figlio oltrefrontiera; tuttavia continua a ripetere: “io sono vecchio. E a me e alle donne non faranno niente”.

Un atteggiamento fiducioso che vediamo riproporsi in diversi episodi dell’Olocausto del lago Maggiore: una fiducia che sappiamo essere sempre stata tradita.

Quindi, Riccardo lascia Gressoney mentre la famiglia resta in albergo. La ricostruzione storica prende a questo punto diverse direzioni, almeno inizialmente. Le riportiamo a partire dal testo di Mayda.

Secondo il Tribunale militare italiano, che giudicò il responsabile materiale della strage degli Ovazza, il giovane figlio dal banchiere partì da Gressoney il 6 (o 7) ottobre 1943 assieme a un gruppo di profughi croati diretto in Svizzera. Con sé portava una forte somma in preziosi. Alla frontiera, inesplicabilmente, Riccardo Ovazza fu fermato mentre gli altri clandestini vennero lasciati entrare in territorio elvetico. Al giovane, quindi, non rimase che tornare a Gressoney. Ma durante il viaggio in treno, alla stazione di Domodossola, alcuni tedeschi della Fedelgendarmerie lo arrestarono consegnandolo alle SS di Intra, un reparto di 200 uomini con compiti di “polizia speciale”. […] Riccardo Ovazza fu perquisito, trovato in possesso dei gioielli e dei documenti di identità.

Riccardo Ovazza viene portato al comando SS di Intra, insediato nelle ex scuole elementari femminili. Qui viene forse torturato per avere informazioni sul domicilio dei suoi familiari, forse queste informazioni sono ricavate dagli aguzzini dai documenti che egli ha con sé: di certo, non solo non uscirà vivo dal comando: non ne uscirà affatto.

Una seconda versione, che l’autore di Ebrei sotto Salò nel 1978 affermava essere “accettata anche dagli storici”, riporta invece che

Riccardo Ovazza, che portava con sé 50.000 franchi svizzeri-per passare la frontiera commise l’imprudenza di affidarsi ad una guida : si trattava di Rudy Lercoz, fucilato dopo la Liberazione ad Aosta ( che i tedeschi chiamavano per assonanza “Die Lerche”, l'”Allodola”) e faceva solitamente da interprete ai nazisti durante i loro rastrellamenti antipartigiani nella Valle. Il Lercoz sapeva bene chi erano gli Ovazza di Torino: egli avrebbe ucciso il giovane in montagna, oltre Macugnaga, depredandone il cadavere e denunciando poi il resto della famiglia ai tedeschi per guadagnarsi la taglia.

Massara sembra collegare in qualche modo le due versioni. Mayda le tiene invece separate e aggiunge

E’ sintomatico, comunque, che l’unica testimone della strage degli Ovazza – la signora Ida Rusconi in Maggenga, a quell’epoca custode delle classi femminili nelle scuole elementari di Intra – abbia detto al processo, nel dopoguerra: “Forse mi sfuggì la morte del giovane, ma ricordo benissimo, purtroppo, quella degli altri”.

La presenza di Riccardo Ovazza a Intra il 9 o il 10 ottobre 1943 è attestata dall’ingegner Bruno Henke,  che all’epoca era cittadino tedesco e risiedeva sul lago Maggiore. La fonte su cui ci siamo principalmente basati per la ricostruzione dell’episodio afferma che poi l’ingegnere ottenne la cittadinanza italiana divenendo anche sindaco di Cannero e che dopo la fine della guerra rilasciò una dichiarazione in merito alla strage (elementi per cui non si cita un documento preciso, ma che potranno essere verificati con una ricerca d’archivio presso gli enti indicati dallo stesso Mayda e presso il Comune di Cannero)

Nel 1947 l’ingegnere Henke riferì che “verso il 9 o 10 ottobre 1943” si era recato al comando SS di Intra per offrirsi al tenente Meir come “collegamento tra la popolazione ed il presidio tedesco”. Nell’ufficio scrivani aveva notato un giovane sui vent’anni, la faccia al muro: un sottufficiale, da lui interpellato, aveva detto che si trattava di uno studente ebreo, consegnato alle SS di Intra dalla gendarmeria tedesca di Torino.

Il racconto dell’ingegnere tedesco è poi più dettagliato: riesce a risalire, leggendo documenti aperti sulla scrivania, all’identità del giovane, a farsela confermare dallo stesso, a venire a conoscenza del fatto che era stato arrestato

in montagna con numerose lettere di raccomandazione del padre per le autorità svizzere, circa cinquemila (e non 50.000) franchi svizzeri e alcuni oggetti d’oro.

Riferisce anche che Meir trattò in sua presenza il giovane con violenza, pur affermando che lo avrebbe fatto internare in un campo di concentramento. Ovunque e da chiunque sia stato arrestato, per qualunque strada sia stato condotto a Intra, quello che è certo è che Riccardo Ovazza fu il primo componente della famiglia ad essere ucciso nei locali di Villa Caramora, questo infatti il nome dell’edificio che ospitava il comando. Sempre nella dichiarazione del 1947 Henke disse infatti di avere appreso da soldati e sottufficiali del comando che

Riccardo Ovazza era stato “ucciso in cantina, verso le 5 [del giorno 9 ottobre 1943] e il suo corpo bruciato nella caldaia del termosifone

In possesso di tutte le informazioni circa la loro residenza, una pattuglia di SS la mattina del 9 ottobre, accompagnata da un interprete mulatto, all’ albergo di Gressoney per catturare il resto della famiglia.Rispetto ad altre fonti, Mayda è qui ancora una volta più generoso nei particolari, anche se non puntualissimo nei riferimenti documentali. Nella sua ricostruzione si afferma infatti che l’interprete sarà identificato con precisione a guerra finita e viene indicato anche il nome dell’albergatore di Gressoney.

Ottenuta la conferma della presenza degli Ovazza, si presentano a Ettore, che secondo Mayda è “sorpreso ma calmo” e lo informano del fatto che Riccardo, trovato in possesso di valuta straniera, grave reato in tempo di guerra, è stato arrestato. Il padre deve seguire le SS a Intra il giorno successivo per dare spiegazioni, intuisce probabilmente che potrebbe trattarsi di un viaggio di sola andata ed affida all’albergatore un gioiello della moglie perché lo custodisca fino al suo ritorno. Forse Ettore pensa ancora che alla moglie e alla figlia non verrà fatto nulla. Nella, tuttavia, insiste per accompagnare a Intra il marito, almeno secondo questa ricostruzione. Come era stato indicato a Ettore, gli Ovazza, che a questo punto decidono evidentemente di non separarsi, si sono procurati una vettura a noleggio ed è noto il nome dell’autista: Donato Tarchetti. nell’auto vengno anche caricati i bagagli dei tre,  che raggiungeranno il Lago Maggiore seguiti dalla pattuglia di SS che li ha scovati, ancora ignari della vera sorte di Riccardo, ma già trattati in modo duro dai loro futuri assassini. Pare che una volta giunti a destinazione la scorta si sia accorta della mancanza di una cassa dai bagagli degli Ovazza e che l’autista fu rimandato a prenderla.

Ettore, Nella e Elena Ovazza sarano assassinati il giorno 11 ottobre 1943: tutti e tre sono stati trascinati nello scantinato del comando tedesco, freddati con un colpo alla tempia, fatti a pezzi e bruciati, come Riccardo, nella caldaia.

Del brutale assassinio e del maldestro tentativo di disfarsi dei corpi fu testimone oculare Ida Rusconi, che al processo contro Meir ricostruì gli ultimi istanti di vita degli Ovazza così come aveva potuto osservarli (e sentirli) da una finestra, anche se riporta con certezza solo di Ettore, Nella, Elena. L’ipotesi dell’amputazione e del rogo dei corpi è confermata anche da Rodomonte Cadenazzi, addetto del comune per l’accensione della caldaia.  Nella testimonianza rilasciata al processo contro Meir, l’uomo dirà che dopo che i tedeschi avevano lasciato Intra pulì accuratamente la caldaia: in occasione di questa operazione notò che vi era il caratteristico odore dell’incenerimento della carne e rinvenne nel focolaio sottogriglia, tra rottami di metallo e maiolica, parecchi frammenti di ossa calcinate. Per la verità, il persistente odore di carne bruciata, durato diversi giorni, oltre al fumo in uscita dal comignolo della scuola, è attestato da diverse testimonianze raccolte nel corso degli anni.

La procura militare di Torino nel 1953 intraprese un’ istruttoria nei confronti dell’ex ufficiale delle SS Gottfried Meir, responsabile della strage della famiglia Ovazza. Il processo si celebra in contumacia a Torino nel 1955.  L’imputato, all’epoca, era direttore di una scuola elementare in Austria. Il processo si conclude nel luglio del 1955 con la condanna all’ergastolo. Il governo austriaco non concederà l’estradizione. Nel 1954 si svolge sul “caso Ovazza” un processo contro Meir a Graz: in questo caso, l’imputato è  assolto e le uccisioni sono state attribuite a due marescialli morti nel marzo 1945: Janke e Rahnenfuhrer.

Un episodio dell’Olocausto del Lago Maggiore, quindi, per il quale venne ben presto aperto uno specifico processo. Se, di norma, gli ebrei presenti nella zona nel settembre 1943 possono essere divisi in tre grandi gruppi, (ebrei italiani residenti da tempo nelle diverse località; ebrei italiani sfollati da Milano, dalla Lombardia e da Torino a seguito dei bombardamenti e alloggiati in seconde case di loro proprietà, in affitto o in albergo; ebrei provenienti dall’estero con cittadinanza italiana o con altro passaporto e alloggiati soprattutto negli alberghi, secondo le ricostruzioni effettuate nel 2013 dalla direzione scientifica dell’Istituto Storico Piero Fornara), gli Ovazza non rientrano in alcuno di essi. Sono cittadini italiani di religione ebraica, sappiamo ben inseriti nell’Italia fascista e che si sono rifugiati in Valle D’Aosta progettando una fuga verso la Svizzera: non intendevano passare il confine dal Lago Maggiore. E’ il caso che decide che la fine dei loro giorni avverrà qui. La loro cattura è tardiva, forse hanno atteso troppo il momento buono per lasciare l’Italia. Di certo, la dinamica dell’arresto differito di Riccardo e del resto della famiglia, l’evidente volontà di sbarazzarsi dei loro corpi, depongono a favore della tesi per cui le stragi del Lago Maggiore furono perpetrate a scopo di rapina.

Nel 2013, in occasione della pubblicazione Io mi sono salvato per i tipi di Interlinea, viene definitivamente respinta l’ ipotesi  di ricostruzione della vicenda  secondo la quale Riccardo Ovazza, per espatriare attraverso il valico della Bettaforca, passaggio importante tra le vallate di Ayas e Lys, raggiungibile da Saint Jean, si sarebbe servito di una guida locale ritenuta fidata, da cui sarebbe stato soppresso nei pressi di Macugnaga per rapinarlo della grossa quantità di denaro, gioielli, lettere di credito che aveva con sé. Pare che la fuga anticipata oltreconfine di Riccardo fosse infatti finalizzata alla messa in salvo dei beni degli Ovazza, (forse Ettore Ovazza affermava di non sentirsi in pericolo a Gressoney per creare una copertura) e che quindi il ragazzo avesse con sé parecchie delle loro ricchezze. Questa tesi, però, cadde già in occasione del processo al tribulale militare di Torino del 1955, quando fu accreditata quella secondo la quale Riccardo era aggregato a un gruppo di profughi croati e fu inspiegabilmente respinto alla frontiera elvetica. Dalla Svizzera fu riaccompagnato per ferrovia da amici occasionali a Domodossola, dove venne segnalato alla Feldgendarmerie, che ritenne poi di consegnarlo alle SS della 2a compagnia del 1° battaglione “Adolf Hitler” che si trovava in quel momento a Intra. Il ragazzo finì quindi nelle mani del tenente Meir, che interrogandolo sui beni trovati in suo possesso ottenne da lui anche informazioni sulla località in cui si trovavano gli altri componenti della famiglia.

Anche da questa più recente ricostruzione, che offre molti meno particolari del testo di Mayda e che di fatto si riduce tutta nella nota di pagina 217 del testo, oltre alla crudeltà degli assassini, che infieriscono sui corpi, appare la volontà di rapina: per quale ragione recarsi a Gressoney, senza la certezza di potervi trovare i parenti del ragazzo, se non quella di mettere le mani su altri gioielli e denaro?

La tesi accreditata dal volume di Aldo Toscano lascia trasparire che il viaggio da Gressoney a Intra fu condotto sulla camionetta delle SS, non su un’auto a noleggio, ma coincide con quella di Massara e Mayda relativamente alla sorte dei quattro torinesi. Una fine che si consuma velocemente, senza che la popolazione locale possa averne davvero consapevolezza, anche perché gli Ovazza non erano stati arrestati in quanto soggiornanti in paese e tutto fu condotto in modo da non lasciare traccia. In realtà, tutti si accorsero del persistente odore di carne bruciata, del comignolo acceso, la custode delle scuole, che vide trascinare in cantina almeno Ettore, Nella e Elena, pose timide domande, ma le fu intimato di tacere, come ha riferito al processo di Torino.

Resta di loro, oggi, una lapide con i nomi nel luogo in cui furono massacrati. Villa Caramora ha di nuovo cambiato destinazione d’uso: non è più sede delle scuole, ma dell’anagrafe.

Questo detto, cosa sappiamo davvero di queste quattro persone? Rispetto alle vittime di altre località, possiamo più facilmente ricostruire la loro vita prima dell’armistizio. La biografia di Ettore Ovazza è nota, possiamo intuire quella di sua moglie e dei suoi figli. Uno squarcio sul loro privato prima dell’occupazione tedesca viene dai diari di Elena Bachi, moglie di Roberto Levi, catturato e poi scomparso a Orta con il padre per mano nazista: un altro episodio dell’Olocausto del Lago Maggiore che data circa un mese prima di quello di Intra: 14 settembre 1943. I diari della donna sono stati publicati dopo la sua morte a cura della nipote Simonetta Bachi nel testo Vengo domani, zia, molto utile ai fini della ricostruzione della vicenda dei due Levi spariti ad Orta e del salvataggio delle loro mogli, contiene inoltre ampi brani che descrivono la vita che Elena Bachi conduce da ragazza a Torino. Queste pagine, nell’ottica di ricostruzione delle biografie delle vittime, sono particolarmente interessanti, anche perché scritte in momenti in cui ancora non era possibile prevedere la tragedia che si sarebbe abbattuta sugli israeliti. Dallo loro lettura, ad esempio, veniamo a conoscenza del fatto che gli Ovazza avevano una villa a Moncalieri e del tipo di vita che conducevano. Villa che, per altro, risulta oggi essere ancora proprietà dei discendenti.

Di Ettore, Nella, Riccardo, Elena abbiamo anche delle fotografie, non siamo costretti ad immaginare i loro volti. Si possono vedere nel database ” i nomi della Shoah italiana” sul sito del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

Dunque, quattro storie iniziate e finite in piemonte, la cui ricostruzione è possibile attraverso la lettura dei testi indicati e, possibilmente, di fonti documentarie, come gli atti dei processi. Nella nostra ricostruzione, abbiamo volutamente indicato dove i riferimenti documentali sono deboli, per stimolare alla ricerca i fruitori dell’installazione in memoria della famiglia Ovazza che è stata organizzata a pochi metri dal luogo in cui furono uccisi, un vero “luogo della memoria”, il 7 e 8 ottobre 2016.

Insomma, storie magari non indagate, ma non dimenticate, ma sulle orme delle quali è possibile incamminarsi per renderne i contorni più definiti.

 

Elena Mastretta

 

bibliografia di riferimento

Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einudi, 1972

Paola Lazzarotto, Fiorenza Presbitero, Sembra facile chiamarsi Ovazza : storia di una famiglia ebraica nel racconto dei protagonisti, Milano – Edizioni biografiche, 2009.

Giuseppe Mayda, Ebrei sotto Salò-la persecuzione antisemita 1943-45, Feltrinelli, 1978

Enrico Massara, Antologia dell’antifascimo e della resistenza novarese – uomini ed episodi della lotta di Liberazione, 1984

Elena Mastretta, E più bella e gioiosa era Orta, I Sentieri della ricerca, Edizioni Centro Studi “Piero Ginocchi”, n° 21, 2016, pp. 25-40

Marco Nozza, Hotel Meina, la prima strage di ebrei in Italia, Mondadori, 1993

Aldo Toscano, Io mi sono salvato- l’Olocausto del lago Maggiore e gli anni dell’internamento in Svizzera (1943-1945), Interlinea, 2013

 

Videografia

Even 1943 Olocausto sul Lago Maggiore, documentario di Lorenzo Camocardi e Gianmaria Ottolini, Associazione culturale Casa della Resistenza, 2010

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